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ORARIO:Museo CID_
Torre panoramica
sab. 10.oo/13.oo - 16.oo/19.oo - dom. 15.oo/20.oo
chiuso Natale, Santo Stefano, 1° e 6 gennaio
TRANSITI E PERMANENZE
di Fulvio Dell'Agnese
Un tasto in meno. Il nuovissimo portatile sfornato dalla Apple, che mia figlia già cerca di sottrarre alla mamma, è privo del tasto “canc”; esiste solo il “backspace”, si cancella esclusivamente all’indietro.Che le grandi menti dell’informatica avessero un’idea differente dalla mia della lettura, lo avevo capito; il pensiero di un libro digitale mi atterrisce. Ma non credevo fossimo così distanti anche nella concezione dello scrivere. Invece devo constatare come da parte loro si dia per scontato che il ripensamento – con susseguente esigenza di cancellatura – consista solo nell’eliminare subito l’errore di battitura. È come se ti costringessero a dipingere dando le pennellate in un verso solo.
Transiti e permanenze. A partire da Villa Chiozza a Scodovacca, dove Elisabetta Sari interviene nello spazio del cortile retrostante l’edificio con una sottolineatura – che le pertiene per formazione, come architetto paesaggista – della dimensione di natura connotante il complesso.
Il vasto parco all’inglese, con la sua alternanza di boscaglie, radure, acquitrini, è di là dall’edificio che ospita l’Ente Regionale per lo Sviluppo Agricolo; nella corte tre enormi gelsi si stagliano sul bianco di ghiaia ed intonaci, prestandosi ad una riflessione visiva sul tempo naturale e su quello storico.
Il primo ha privato gli alberi delle loro fronde; il secondo ha sancito l’importanza specifica di queste piante nella vita economica del territorio, secondo dinamiche produttive – la coltura del baco da seta – ormai lontane, ma che proprio a Villa Chiozza, per le funzioni dell’ente che vi opera e nel ricordo delle ricerche scientifiche che vi vennero condotte, meritano di mantenere traccia tangibile.
Le foglie sovradimensionate che Elisabetta fa comparire, fuori stagione, ai piedi delle grandi piante diventano così pedine di un duplice gioco della memoria; che riscatta al rango di palcoscenico uno spazio altrimenti confinato al ruolo di neutra cerniera fra villa e edifici di servizio.
Come nell’enorme tessuto di Marisa Bidese, che si dispiega sulla riva opposta con la metafisica evidenza di un’apparizione mitologica: chi sta entrando o uscendo dalle acque trascinandosi dietro questa tela di Penelope? Una solare Europa rapita o una Gorgone ctonia?
Di certo la nodosa, arcaica corsia serpeggiante segna, nel suo plasmarsi al suolo fino a lambire il fiume, il rapporto fra dimensioni dichiarate contigue, come il drappo canoviano che esce dall’ombra a sancire comunanza d’affetti fra vivi e morti – tra chi va e chi rimane – nel Monumento a una duchessa d’Austria di cui lo scultore incornicia il ritratto con la pelle d’un serpente che – eterno ritorno – si mangia la coda.
Anche in questo caso, come di là dal fiume, caterve di vecchi maglioni hanno fornito con le proprie gabbie infeltrite di corpi la materia prima per l’installazione; senza cercare nel metodo ormai abusato del riuso una propria ragion d’essere poetica, da scovare invece in quelle forme di mutamento che coinvolgono gli oggetti in quanto testimoni del quotidiano divenire dell’uomo; il più instabile di tutti, anche quando rimane immobile.
Anche quello in cui agisce Johannes Pfeiffer è uno spazio di transito. Nel loggiato del Municipio l’intervento dell’artista reinterpreta le masse dell’architettura attraverso il loro vuoto, rendendo visibili le direttrici prospettiche che individuano e con scabro artificio fissano il passaggio del singolo, in un tempo che – così dilatato – non è più quello della storia. Un macigno e una ragnatela di funi silenziose, proiettate verso un imprevisto punto di fuga, restituiscono dignità di percezione a momenti all’apparenza marginali del luogo, ne interrompono la visione unitaria e simmetrica rivelando come la sua organica ragion d’essere si leghi proprio alla frammentazione operante da ogni esperienza individuale. L’istante in cui può essersi prodotta – senza assumere forma stabilizzata – l’occasionale presenza di ognuno di noi sotto quelle arcate viene sottratto all’impalpabilità estetica del flusso; permettendo così, come un particolare trattamento del colore in pittura, “di conferire allo spazio quel carattere mucoso e tangibile, proprio di un’atmosfera che contiene oggetti”[1].
Far riemergere la tattilità di quello spazio assume nello specifico contesto un valore simbolico: siamo nel "pronao" del tempio della burocrazia, a pochi passi da dove si sancisce la nostra identità anagrafica di cittadini. E nelle nicchie del vestibolo Pfeiffer allestisce due grandi volumi sulle cui pagine socchiuse scopriamo, come incisioni epigrafiche nello spessore di pietra di una lapide, le tracce di nomi ostinatamente legati a dei numeri: nascite e morti, date unite da un trattino, ovviamente incapaci – pur nella loro ufficialità – di dar conto di quanto vi trascorse in mezzo.
Come nel portico il vuoto viene posto in tensione per farne spazio, qui si evoca la distanza fra identità e persona, fra un nome e quel grumo d’azioni, pensieri ed affetti che, invisibile a quasi tutti gli altri nel corso della vita, dopo la morte rimane flebilmente abbarbicato a poche sillabe in un registro. Estrema illusione, “[…] a tal punto costante, a tal punto imperiosa, a tal punto esigente sembra essere questa nostra necessità di andare per il mondo a dire chi siamo, […] come se per il fatto di averci riconosciuto ci conoscessero e di noi non ci fosse nient’altro da sapere, o quel poco che ancora restasse non meritasse l’impegno di una domanda nuova”[1].
Altrettanto teso a demolire l’arroganza denotativa del testo scritto, portandone invece alla luce il possibile ruolo di fisico collante di una progettazione estetica, è l’intervento di Oreste Sabadin nella corte del Centro Civico e all’interno della Biblioteca. Pagine solide è un’installazione ambientale costruita di libri: volumi che diventano scultura, quaderni che vediamo levitare come in un mobile calderiano, ironici E-book in cui carta, inchiostro e polvere consumano la propria innocente vendetta sul cranio di un’intelligenza artificiale; ma soprattutto libri che si offrono – aperti – al nostro sguardo nella continuità sonora delle pagine da sfogliare, ricoperte di colori saturi che le impregnano con le vissute scrostature d’intonaci di una stanza profondamente amata; pagine ovunque percorse da una grafia che ormai si è lasciata alle spalle anche i pochi scrupoli sintattici e la deriva di senso del flusso di coscienza in tempo reale di Leopold Bloom.
Ho maturato il dubbio che Joyce scrivesse così – mi si perdoni l’affettuosa irriverenza – perché con intorno il caos di una famiglia, in una sola stanza, non aveva alternative; Oreste invece lo ha liberamente scelto… Di rendersi tramite, intendo, fra i suoni dei pensieri e la carta, facendo in modo che la scrittura lasci per strada – mentre si deposita – ogni scoria di significato. Le lettere si fanno pura trama, che quando può sfrutta anche le rigature della carta, lì ad attendere – pare – l’annotazione musicale.
Tracce visive di una complessità di sentire e non veicolo cifrato di significati; questo offrono, sotto forma di parole, i libri intrisi di lettere e colore di Sabadin, non diversamente da quanto abbiamo visto accadere nei grandi registri di Pfeiffer, con le loro impronte simboliche. Cos’altro sono, infatti, quei nomi incertamente scalfiti sulle pagine? E solo più concretamente allusive alla imago corporis – ma egualmente lontane dalla superficie trafficata dell’esperienza – sono le Impronte di Leda Nassimbeni, installate all’interno della piccola chiesa di San Girolamo. Nuche, braccia, corpi che tornano a galla – o sprofondano? – con l’inquietante urgenza senza volto di un ricordo rimosso. Ombre di donne – detto nel senso di esseri umani, come se scrivessi “uomini” – che riemergono dagli immani Maelström della storia o dai piccoli anfratti di vertigine della vita di ognuno; e che lo fanno con una fisicità inconsueta nell’associazione al materiale – lastre di acciaio – ed alla tecnica, che prevede la trasformazione del metallo in una sorta di pellicola fotografica, impressionata dall’artista adagiandovi il corpo della modella e indirizzata nello sviluppo sostituendo agli acidi il calore di una fiamma ossidrica.
Il risultato assume, nell’accostamento dei vari elementi in forma di polittico, la dinamica gestuale di un Compianto da sacro monte e la stratificazione lacerata del pathos di una Combustione informale.Vicine, nella chiesa, ai simboli della fede, queste opere non si atteggiano a Crocifissioni laiche. Sono piuttosto dei sudari: al di fuori di rimandi cristologici che cadrebbero nell’ovvietà, identificano foscolianamente varchi tra dimensioni diverse, tra il lucido nitore di partenza della lastra e le ombre che su di essa, dall’oltre, vengono evocate.
Ed è in una sorta di limbo, di reminiscenza di un passato che si sarebbe potuto realizzare, ma non seppe mai assumere le forme prefissate, che va ad affondare le sue radici l’intervento artistico ospitato a Borgo Fornasir. Le Coordinate di una morte ripercorse da Ivan Crico sono quelle della progettata sepoltura nella chiesa della Mater Dei di chi l’intero borgo aveva progettato, ma che non riuscì ad inserire uno spazio definitivo per sé all’interno della propria creatura ideale. È ora l’impronta di un’assenza a testimoniare quanto di irrisolto aleggiava fra arbusti e mattoni: non c’è più bisogno di lapidi né di fosse, perché la memoria di un visionario si può tranquillamente adagiare nella vuota matrice interrata del suo corpo, “nella conca di pioggia del commiato”[1]. Nei disegni di studio per l’installazione all’esterno della chiesetta, Crico suscita il profilo del genius loci in termini di prossimità visiva agli alberi che del suo sogno urbano e imprenditoriale sono rimasti a lungo i quasi unici testimoni.
Ripenso a una celebre sequenza in soggettiva di Dreyer e cerco di immaginare quei rami nodosi come li vedrebbe dal suo sospirato sepolcro il “creatore esiliato”; ridare una possibilità al suo sguardo di scorrere nelle trame mentali e sulle spesse brine di quell’angolo di campagna, ricreare per lui le condizioni “dove il tempo dice la parola di soglia”[1], mi pare gesto di tenerezza inconsueta.
A Torviscosa, il microcosmo sta in alto. Gian Carlo Venuto utilizza lo spazio della Torre panoramica, sospeso sulla città, nei suoi connotati di luogo isolato – quasi orbitale – ma al contempo proiettato nel paesaggio, per condurvi alle estreme conseguenze le sue ventennali sperimentazioni sulla pittura ad affresco. Decine di tondi, realizzati stendendo l’intonaco su di un supporto in lana di legno, ritessono l’estensione percepibile della parete, la ritmano in reticoli che fanno rivivere l’antica battitura dei fili, o in un enorme cerchio che può serbare memoria di soli al tramonto quanto di giri di lancetta che scandiscono il tiraggio della calce.
L’operazione è condotta sul filo del paradosso di piccole forme geometriche, che potremmo attenderci asetticamente iterate nella dilatata retinatura di un catalogo di colori – estensione murale di un luccicante campionario farmaceutico alla Hirst –, la cui regolarità risulta invece ben presto solo apparente. In ogni disco la meccanica del dipingere a buon fresco, condotta alla superficie in tutta l’evidenza del gesto e del processo di fissaggio del pigmento, viene direttamente tradotta in fatto espressivo: velature, incisioni, spolveri, inserti a latte di calce, posti sotto la lente d’ingrandimento nei singoli elementi, enfatizzano la componente estetica insita nella tecnica parietale, nelle trasformazioni della materia che l’artista è chiamato a gestire. Un’officina alchemica sospesa sulle ciminiere.
Perché quella di Torviscosa è, in tutta la sua complessità, una realtà industriale; evocata, con vigore plastico, ma insieme con la leggerezza di marzapane di una fiaba, dalle sculture di Daniela Chinellato collocate negli spazi del CID – Museo Territoriale della Bassa Friulana.
A Torviscosa, inaugurata nel ’38 da un poema di quel Marinetti che giusto un secolo fa poneva le premesse teoriche alle ciminiere di Boccioni, le sbuffanti colonne in terracotta dipinta dell’artista di Bolzano trovano posto con la stessa naturalezza di una statua littoria lungo viale Marinotti, o di un comignolo su una delle mille navi che lì vicino sono entrate e uscite per via d’acqua dagli stabilimenti; sono Ciminiere che – a quarant’anni di distanza – con il loro gonfio pennacchio di fumo sembrano palpitare del surrealismo psichedelico di Yellow Submarine, ma la cui superficie segnata da lividi e graffiti ha l’odore caliginoso delle periferie urbane di Sironi.
Se questi sono – anche artisticamente, dalla Fabbrica di Rio Tinto di Picasso e Braque in avanti – i totem del progresso del XX secolo, è invece sulla icona tecnologica del nuovo millennio che insiste l’intervento di Michele Viel, il quale innesta nel corpo di alcuni robot, assemblati con parti di vecchi elettrodomestici, meccanismi e suonerie in grado di essere attivati da una chiamata di cellulare. La carcassa industriale si fa carapace sferragliante di una nuova lira orfica, cassa armonica della sola voce ormai capace di acquietare coscienze e di attivare in concordia lavatrici e frullatori: quella telefonica, ovviamente mobile.
Nella calata dei VibraBots di Viel si inscena l’ironica proliferazione di quel delirio ipercomunicativo che ci sta seppellendo sotto una valanga di informazioni sempre più frammentate, rapide, insipide; ma di consolante capacità omologativa.
Che abbia, allora, un senso insistere nell’antica e desueta usanza di contemplare cieli ed acquitrini, immersi oltretutto in un vaporoso silenzio? Col rischio di vederli trascolorare gli uni negli altri nel dilatarsi dell’istante, senza più che lo sguardo trovi l’appiglio per dare concretezza di misura al suo rapporto con questo scenario; che allora, approdato a una dimensione tutta interiore – come quella dei dipinti di Daria Cerqueni –, può anche frammentarsi in pannelli verticali come un paravento, come un altarolo portatile: di quelli che nel '400 racchiudevano in piccola superficie snodabile il segreto del transito dal quotidiano allo spirituale, condensando in pochi centimetri di legno di pioppo esigenze di celebrazione del proprio status e scandaglio del sacro, nella insondabilità costruita dalla preparazione rossastra sotto il blu di lapislazzuli. Ma i paraventi di Daria non hanno la spessa imprimitura di una tavola; l’olio si stende leggero sulla tela e l’immagine si legge – senza ritorni di senso – in una sola direzione: nella sua liquida profondità, nella compenetrazione di una struttura fatta per celare e di una pittura che affronta luce e natura con l’intenzione meditata di aggregare uno spazio paesistico.
La rassegna o8.o9 ha, secondo me, una chiusura ideale: occorre salire una scala e raggiungere il soppalco che si affaccia sul salone principale del Museo CID. Di lassù, nello spaziare dello sguardo dal grande plastico di Torviscosa allo scorcio di città vera, fuori dalle vetrate, si è indotti – un po’ come sulla Torre – ad assumere un grado di distanza dal dettaglio concreto, ad osservare secondo un modo percettivo più disponibile all’astrazione. È proprio in questo ambiente che Agostino Perrini espone una ristretta selezione di suoi dipinti degli ultimi due anni, nei quali prosegue la sua esplorazione di microcosmi esistenziali e psichici – che già si erano configurati nei termini dell’Hortus conclusus in una precedente serie di lavori – tracciando sulla tela le coordinate non propriamente cartografiche di quelle che l’autore definisce Mappae Mundi: tavolati grigi improvvisamente squarciati da una fenditura e dalla sua possibile proiezione futura; linee che paiono marcare confini di silenzio fra spazi egualmente vuoti, forse non più ampi di una stanza; vastità azzurre – pareti come colline – che s’inflettono all’improvviso in una forra blu…