PITOCCO
dipinti e disegni   1952 – 2002
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LUOGO ESPOSITIVO: Centro Civico, Cervignano del Friuli
PERIODO: dal 18 dicembre 2004 al 08 gennaio 2005


Mostra retrospettiva del pittore nato a Letino (CE) nel 1931.
Dopo aver conseguito la maturità scientifica, si iscrive al biennio propedeutico di ingegneria all’università di Bologna.
Nel 1953 si trasferisce a Napoli iscrivendosi alla facoltà di architettura.
E’ dell’anno successivo la sua prima mostra nella città partenopea.; da allora innumerevoli sono state le collettive e le personali in Italia e all’estero, seguite con interesse sempre maggiore dalla critica.

Nel 1959 decide di dedicarsi esclusivamente alla pittura e si trasferisce a Roma dove vivrà per tutti gli anni sessanta.
Nel 1973 si trasferisce a Milano ed è in questo periodo che tiene le più significative personali nelle più importanti città del nord d’Italia ed Europee. Sono più di quaranta le personali tenute in Italia e all’estero. Ha vinto numerosi premi nazionali e internazionali.
Nel 1981 si trasferisce a Cervignano del Friuli dove muore all’improvviso nel 2002.



PRESENTAZIONE di Orietta Masin

A tre anni dalla sua scomparsa si vuole rendere omaggio al pittore Mario Pitocco con un’ampia retrospettiva che comprende cinquant’anni della sua produzione artistica.
L’esposizione si muove dai primi quadri di un Pitocco ventenne affascinato dai paesaggi della sua terra ( i monti e le vallate che circondano Letino, piccolo paese del casertano), prosegue pari passo ai suoi spostamenti, Bologna, Napoli, Roma, Milano fino ad arrivare negli anni ottanta quando si trasferisce definitivamente a Cervignano del Friuli.
Con la vita in città lo sguardo di Pitocco sarà costretto a confrontarsi con ben altri paesaggi: quei paesaggi urbani su cui incombono grattacieli, supermercati, fatti di traffico intenso, di inquinamento e immondizie. Scopre una società schiava degli oggetti e un mondo in cui le donne vengono mercificate e sfruttate.
Tutto questo rientrerà di prepotenza nei suoi quadri dell’età matura.
Solo raramente le tele di Pitocco riescono a trovare un po’ di pace. Forse solo quando si soffermano su una rossa rosa.
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NON TOCCATE LA DONNA BIANCA  di Alessandro Dose

In uno dei suoi rari autoritratti, realizzato nell’ultimo periodo della sua vita, il volto maturo di Mario Pitocco appare spezzato da una larga crepa bianca. Dall’alto verso il basso, secondo una traccia che scende e lacera l’unità della composizione, una linea bianca taglia il suo viso severo e ne lascia visibile solo la parte destra. È un taglio netto, preciso; la coscienza di una parzialità che cerca ossessivamente  il suo complemento. E intorno, fra le rose sbocciate e le spaccature di un universo deflagrato, una moltitudine di figure femminili guarda sognante in ogni direzione. Perché Pitocco ha voluto rappresentarsi in questo modo? Perché ha voluto dare di sé un’immagine dimezzata? Qualunque ne sia la vera ragione, la scelta non potrà mai essere considerata casuale, perché in questa sorta di disegno-testamento egli ha voluto riassumere tutto il suo universo espressivo; in pochi centimetri di carta rosseggiante, calda di rossa matita sanguigna, troviamo infatti racchiuso tutto il suo mondo figurativo: un uomo che guarda e si nasconde, un misterioso cosmo femminile, e un perturbante biancore che squarcia la rappresentazione. In questo piccolo disegno d’occasione ritroviamo tutto il mondo di Pitocco – o meglio: ritroviamo tutto il mondo della maturità, perché quando il pittore iniziò a dipingere, nei primi anni Cinquanta, questo mondo bianco e femmineo gli era ancora del tutto estraneo, tanto che le sue prime tele ci appaiono oggi come semplici prove d’apprendistato. Guardiamole: sono paesaggi della terra natale, vedute di Letino, scorci del Matese, rappresentazioni rurali riassunte con campiture sintetiche e veloci, oppure studiate con l’accuratezza di uno sguardo schiettamente naturalista. Non c’è nulla, in questi lavori, che lasci presagire sviluppi e deviazioni future. Ed è naturale, perché il primo contatto di Pitocco con il lessico della modernità avviene solo più tardi: a Bologna, a una grande mostra collettiva. Giovane studente universitario, iscritto al biennio propedeutico di ingegneria, Pitocco scopre fra le sale dell’esibizione bolognese i lavori di Magritte, di Prampolini, di Braque, ma la cosa che più lo colpisce è la severa organizzazione dei quadri di Piet Mondrian. Attratto dalla nettezza della struttura, si avvicina e resta a guardare immobile quelle tele. Vi scopre la spazialità del bianco, l’economia dei colori, il ritmo delle geometrie, osserva il rigore delle forme e l’essenzialità della composizione, ricavando una lezione che non smetterà mai di influenzarlo. Anche nel suo ultimo quadro, rimasto incompiuto, il palazzo sullo sfondo ha la stessa stilizzazione ortogonale del pittore olandese. Ma nella stessa tela, seduta in primo piano e tratteggiata con pennellate leggere e dai toni velatamente blu-violastri, c’è una figura che negli anni Cinquanta sarebbe stata impensabile: una donna, o per meglio dire una madre con il bambino. L’altro tratto essenziale dell’opera di Pitocco è infatti la presenza della figura femminile, che assume nella sua produzione più tarda un ruolo dominante e esclusivo. Sono pochi i pittori che hanno rappresentato in maniera così ossessiva le forme femminili; eppure, in Pitocco, l’interesse non è quello del ritrattista che cerca con ostinazione l’essenza di ogni donna, perché il suo sguardo si rivolge al modello, alla matrice, all’archetipo, e non all’infinita (e illusoria) diversificazione dei volti e delle identità. La donna di Pitocco è un tipo, non una figura individualizzata. È un’icona seriale, un paradigma contemporaneo, un modello che mentre richiama la convenzionalità del glamour e della moda, si carica di significati contraddittori. Cos’è, ad esempio, quella fredda e disinibita ostentazione del sesso e della nudità? Cosa significa quella raggelata esposizione di carne irrigidita e senza amore? È il segnale della persistenza di eros o la coscienza dolorosa della mercificazione? E ancora: come si possono conciliare una certa iconografia da fumetto con la maschera tragica di un volto che si torce e si deforma? Se una risposta esiste, va cercata nella frattura tra interno e esterno, nel sesso-sectus che manda in pezzi l’unità originaria, nella contraddizione che divide inesorabile lo sguardo dell’altro dallo sguardo di sé. Davanti a un quadro di Pitocco, nel cerchio immaginario che isola soggetto e spettatore, si apre una cesura netta e insuperabile, che li divide come una sottile parete di vetro. Il risultato, frustrante, è la fine di ogni comunicazione: perché chi vuole considerare quei corpi come un oggetto da possedere, li vede irrigiditi e senza sangue; e chi, dall’interno, ostenta un corpo nudo ma eroticamente disinnescato, ha occhi buoni solo per la propria interiorità. Tra due mondi divisi non esiste più possibilità di relazione: Eros chiude gli occhi, depone il suo arco. E lo spettatore che guarda con attenzione i corpi di quelle donne, non potrà mai incontrare il loro sguardo, perché il loro orizzonte limitato abbraccia ormai solo una cosa: le terre vaste e desolate dei paesaggi dell’anima. Come fossero assorbite da una malinconia indissipabile, il mondo, per loro, non possiede più alcun interesse; è finito, cupo, svuotato: e anche se si offrono come esso le vuole, cioè nude e disinibite, negano a quel mondo ogni sguardo, diventando coscienze tragiche della violenza e dell’oltraggio. La consapevolezza che nasce da questa introversione non si traduce però in un urlo disperato o in un gesto di liberazione, e tutto ciò che abita lo spazio della tela rimane immobile e paralizzato. Nel quadro, tutto appare senza vita. Il vento si posa: il tempo si arresta: e l’atmosfera della tela, immersa nella quiete di una notte atemporale, si atrofizza in una stasi dolorosa. Striato da nubi sottili, oppure colmato da un blu innaturale, il cielo plumbeo lista a lutto l’orizzonte, mentre la terra deserta, nella parte inferiore del quadro, si sbianca nella vacuità di un paesaggio dilavato. Anche i corpi delle donne appaiono immobili e rattrappiti: le loro braccia si irrigidiscono in una fissità dolente, e le bocche, dilatate in una smorfia, trattengono ostinate la loro voce. Del resto, a chi potrebbero gridare? Allo spettatore? Al mondo? A Dio? Agli uomini? Chi saprebbe ascoltare il loro lamento? Forse le figure maschili? No, perché se le donne che popolano il mondo di Pitocco hanno deciso di voltare le spalle all’Altro, gli uomini appaiono sempre e irrimediabilmente ciechi. Senza sguardo, senza occhi, senza traccia di intelligenza, essi appaiono sempre raffigurati di spalle, con spalle corpulente di uomo, con natiche rinsecchite da adolescente, oppure, come nei rari ritratti frontali del periodo romano, con facce gonfie e inebetite, quasi zucconi ovali che groszianamente ne ridicolizzano la stupidità. Due soltanto sono le funzioni ammesse dalla sfera maschile: la volontà di possesso, che diventa un abbrancicare violento e accecato, e lo smercio di oggetti nocivi: di droga, merci plastiche e veleni industriali. Arida e infeconda, la sterilità degli uomini si contrappone così alla residua fertilità della donna: ma anche nelle maternità dipinte da Pitocco, costanti in tutta la sua produzione, chi cercasse i segni luminosi della pienezza e della gioia, compierebbe di fatto un’operazione vana. Dare alla luce è un «amoroso crimine», diceva Dylan Thomas, e come nei versi del poeta gallese il luogo della nascita si approssima scandalosamente a quello della morte. Emblema di questa fecondità trattenuta, di madri che con paura e rimorso stringono convulsamente i figli al petto emaciato, è il colore bianco: un colore fondamentale dell’opera di Pitocco, forse il colore che meglio lo rappresenta, ma anche un colore emblematico della creazione artistica, perché il bianco, metalinguisticamente, contraddistingue l’opacità della tela che precede la raffigurazione. Secondo un celebre mito romantico che attraversa molte pagine della letteratura ottocentesca, l’opera d’arte trae la sua origine dall’angosciante virtualità del bianco. Bianca è infatti la pagina che lo scrittore deve sfidare con la sua scrittura, e bianca, analogamente, è la tela che si offre inviolata al gesto sacrilego del pittore; il quale, mentre cerca di dominare con un segno il candore che lo provoca e lo abbaglia, sa che la sua lotta non potrà mai essere del tutto vittoriosa, perché il bianco, incancellabile e mai rimosso, riemergerà alla fine del quadro a testimoniare lo scacco di ogni creazione. «Il bianco è la “sessualità” del quadro», scriveva Alberto Castoldi; e come la fecondità sofferente delle donne di Pitocco si lascia aggredire dal bianco malcelato della tela, così il quadro si definisce e si materializza emergendo da un vuoto di perturbante biancore. In modo consapevole, oppure per un caso fortunato, un quadro di Pitocco porta lo stesso nome di due opere ottocentesche: Sinfonia in bianco – lo stesso titolo di una serie pittorica di James Whistler e lo stesso di un poemetto di Théophile Gautier, dove la chiave cromatica, per la verità, è alterata in “bianco maggiore”. Protagonista di entrambe le opere è una donna; in Gautier, essa assume le sembianze gelide di una valchiria, una donna-cigno, una sfinge polare, una figura nordica che vive isolata in un’orgia di biancore. Candida come la neve, scintillante come la mica, la sua pelle può fare a gara con lo splendore del chiaro di luna, e le sue spalle, avvolte di seta bianca, sono abbaglianti marmi di Paro. Chiusa in una gabbia di gelo, nessuno potrà sfiorare il candore del suo corpo: se non chi, sciogliendo il suo cuore, «saprà dare un tono rosa a quell’implacabile biancore». Non più intoccabile, ma malinconicamente violata è invece la donna di Whistler, che pur appartenendo a un mondo figurativo remoto, nasce da un’ambizione prossima a quella di Pitocco: trarre dal bianco una figura bianca. Il quadro è «una splendida massa di un bianco brillante», scriveva Whistler, e lo stessa definizione, seppur sfumata nella solidità del suo lessico, potrebbe essere facilmente attribuita a molti lavori di Pitocco. Questa ossessione per il bianco non è però l’unica cifra stilistica che accomuna i due pittori, perché la serie whistleriana si avvicina al mondo di Pitocco anche in altri aspetti: nell’abbandono desolato, nello sfiorimento sessuale, nell’annichilimento erotico, sino a sfiorare, nella Symphony in White n.2, l’isolamento sentimentale e l’introversione malinconica. Con gli occhi fissi nel vuoto, tristemente abbandonata, la donna di Whistler sta in piedi accanto allo specchio, e l’unica alterità possibile, secondo l’autore, si esaurisce in quel riflesso che passivamente la raddoppia. La staticità disperata che qui li accomuna, non diventa però una costante assoluta dei due percorsi figurativi, perché il pessimismo della maturità, in Pitocco, lascerà il posto a una concezione improvvisamente meno nichilista. Negli ultimi suoi quadri, dipinti verso il 2000, le donne non hanno più un aspetto dolente e mortificato. Ora sono diverse: sono aperte, belle, fiere, libere; hanno sguardi decisi e corpi di nuovo desiderabili. Attorno ai loro volti, non più umiliati dall’offesa del mondo, il cielo plumbeo riconquista il colore azzurro, mentre il bianco dello sfondo, divenuto meno pervasivo, cede il posto ai colori della natura: alla terra, all’acqua, alla sabbia, alle piante, alla vegetazione. Anche gli interni hanno ora nuovi colori, sono più luminosi e caldi: e dal collo di una donna distesa sensualmente tra le lenzuola, scende e si allarga un increspato velo rosa – rosa come il colore dei versi di Gautier. Sarà forse quel «tono» caldo capace di sciogliere l’implacabile biancore? Non lo sappiamo, il mistero resta insoluto, perché alla fine della sua vita Pitocco compie un’operazione ambigua: sigla tutti i suoi quadri «Pitocco 2000». Tutte le sue ultime tele, anche quelle dipinte in questo secolo, hanno la stessa identica datazione, tanto che si ha l’impressione che l’autore abbia voluto dire: ho stabilito il confine della mia opera, la mia ricerca è conclusa; tutto quello che dipingerò d’ora in poi non potrà aggiungere nulla a ciò che ho già detto. Eppure, proprio nello stesso periodo, avviene in Pitocco una sorta di conversione, che muta sia i colori che la sensibilità. Mentre la tavolozza si rischiara, aprendosi a tinte accese e mai tentate, le atmosfere assumono toni caldi e più sereni, trasmettendo quasi il senso di una finale conciliazione con l’esistente. Dopo aver attraversato la notte della disperazione, e dopo essere sprofondato nel più sterile degli inferni, lo sguardo di Pitocco torna alla luce e ritrova nello sguardo delle donne una personale armonia con le cose. Il suo spirito si allevia, sembra rinfrancato. Ma lo è davvero o si tratta di una semplice impressione? Come possiamo considerare questi quadri? Sono parte integrante dell’opera di Pitocco, che entra a pieno titolo nella sua produzione? O sono qualcosa di differente, di impossibile, come un sogno sognato o come un altrove non raggiungibile? Se una risposta esiste, è tutta racchiusa in quella firma – una firma ingannevole, equivoca, che non sappiamo come interpretare. Significa che il percorso si è chiuso nel 2000 e che gli ultimi quadri non hanno più valore? O che sono proprio questi quadri a suggellare l’opera rendendo impossibile ogni integrazione? Di fronte a questa opzione, ognuno può scegliere la versione che sente più congeniale. Ma ogni sua posizione, fiduciosa o disperata che sia, non potrà mai nascere da una riflessione avventata; dovrà al contrario fare i conti con qualcosa di molto serio: con l’eros, con la bellezza, con l’amore, con la creatività; con il senso o il non-senso della vita.
 
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I VOLTI DELLA VITA    di Aldo Centore

L’opera artistica di Mario Pitocco è dominata, anche se non in misura esclusiva, dalla figura femminile.
Per quanto mi è stato possibile constatare le donne, vengono presentate in uno stato di annichilimento, derubate o depauperate della loro vita. Sono figure le cui sagome e profili, alterati in modo riduttivo, trasmettono un messaggio di mortificazione fisica e interiore come il mondo che le circonda.
Sono i volti che hanno impronte di fermezza, austerità e decoro.
Nelle sue ultime opere si assiste a un recupero dell’immagine femminile nella completezza del fisico e nella sua ricchezza interiore, nello sguardo che fissa il futuro con piglio sicuro.

In uno dei suoi ultimi lavori I volti della vita, che è anche il titolo autografo di una mia raccolta di poesie, Mario ci rende una sintesi di tutta la sua opera. E mi diceva: “ L’ho fatto per te, te l’avevo promesso e devo dartelo, ma lo terrei per me, perché vi ho raccolto tutte le mie visioni femminili”.
Per sigillo, nella parte bassa è raffigurata una donna giovane, libera, bella, scoperta che guarda verso il cielo. In alto è abbozzato, tra tanti volti femminili, quello di un uomo. A Iole, sua moglie, chiesi chi fosse quell’uomo e lei, senza esitazione, rispose: “E’ Mario”. Capii che concludeva la sua ricca produzione artistica nella contemplazione di quei volti.
Nel frattempo ebbi modo di sapere il suo travaglio perfezionistico: su nastri di carta oleata (che conservo tuttora) più e più volte scrisse il titolo I volti della vita, chiedendomi quale scritta fosse la migliore. Tra me pensai che se tanto scrupolo poneva in una scritta, in un quadro l’impegno per renderlo inappuntabile doveva essere enorme.
E l’opera compiuta appare come un dono dal cielo.

(dicembre 2005)


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Testi tratti dal catalogo della mostra