Dicembre 2007
TITOLO EVENTO


o7.o8 rassegna di arte contemporanea


Quarta edizione della rassegna di arte contemporanea che vede coinvolti gli spazi urbani della Città di Cervignano del Friuli  in una esposizione temporanea di opere scultoree e di installazioni site-specific.
Atto a proporre un percorso culturale che si snoda tra la ricerca delle nuove espressioni artistiche e il dialogo con lo spazio che le circonda, questo progetto, ideato da Orietta Masin, vede la partecipazione attiva, per il secondo anno, del critico e storico dell’arte Fulvio Dell’Agnese e la collaborazione della scultrice Cristina Lombardo.


Sono proposte le opere di Sonia Casari (Centro Civico e Chiesa di San Michele), Ciro Cesaratto (Palazzo Municipala), Vera Paoletti (Borgo Fornasir), Gianni Pasotti (Zona porto fluviale) e Sabina Romanin (Palazzo Municipale).


In questa nuova edizione la rassegna amplia il suo spazio d’intervento al Comune di Torviscosa.
Tre sono gli artisti invitati a esporre all’interno del Cid - Museo Territoriale Bassa Friulana, progettato nel 1961 dall’architetto Cesare Pea:  Annalisa Gaudio, Adriano Visintin e Renzo Possenelli a cui la rassegna dedica lo spazio più ampio all’interno del Museo.

Col patrocinio della Regione Friuli Venezia Giulia, della Provincia di Udine, del Comune di Torviscosa e di Cervignano del Friuli,  il progetto è promosso dal Circolo ARCI Cervignano e dall’Assessorato alla Cultura di Cervignano del Friuli.



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Due città, l’arte e le matite dei bambini di Fulvio Dell’Agnese   


L’obiettivo di questa rassegna? Se n’era diffusamente parlato lo scorso anno e sarebbe ingeneroso nei confronti del lettore riprendere le argomentazioni nel dettaglio. In sintesi estrema, si ritiene possibile risarcire il contesto di un centro urbano e la piattezza latente cui lo conduce nella nostra percezione il sempre più rapido scorrere dei flussi umani con degli emblemi di discontinuità; niente a che vedere con i segnali di cambiamento di rotta cari al gergo politico, qui si parla di immagini che con la propria valenza estetica ed aura concettuale riescano a creare piccole anse di riflessione. 

Arguti mulinelli di pensiero, sorrisi garbati sono quelli di Gianni Pasotti e del suo sguardo che scorre sulle inevitabili banalità del quotidiano, rielaborandone le colpevoli o ingenue contraddizioni. L’installazione proposta sulle banchine del porto fluviale di Cervignano consiste di vasche da bagno dai colori sfacciati, come fossero saponette aromatiche, profumo glassato per un’immersione di relax in acque private, sicure, scontate. E il guinzaglio che le tramuta in docili ed esibiti cagnolini, surreali propaggini da passeggio di una intima realtà domestica di rifugio, nella logica dell’artista non può essere che di una plastica in grado di evocare al tempo stesso i giocattoli di oggi e la moda degli anni sessanta.

Come sempre, le opere di Pasotti sono meccanismi che raggiungono la semplicità attraverso percorsi attentamente calcolati, nei quali nessun passaggio viene saltato. Il passeggio in riva al fiume diventa una “vasca” in senso letterale? Il gioco di parole può apparire banale, ma non lo è proprio perché i fili del paradosso visivo e semantico sono annodati con precisione, senza sbavature, con il rispetto dei tempi degno della gag di un Laurel o Tati. Solo così si produce l’alternativa ad un semplicistico, gratuito effetto di sorpresa; solo così si apre lo spazio di infantile stupore ed ironia per un attimo di pausa realmente meditato: “È quello il silenzio che il maestro ama, / il gusto d’infinito che trattiene. / Le stelle – impronte di denti sulle matite dei bambini. / Ascoltatelo, dice felice” .(1)

Altro luogo profondamente segnato dall’idea di transito, nella meccanica sociale e politica della città, è la loggia del Municipio. Qui Sabina Romanin colloca alcuni stendardi che – lontani dal valore celebrativo e istituzionale solitamente legato a tali drappi un po’ stentorei – ripropongono in grande scala i ritratti che l’artista solitamente realizza in dimensioni da cavalletto: sottili memorie di legami profondi ma soprattutto di incontri passeggeri, di quotidiane contiguità, eseguiti sul tessuto tramite cuciture che lasciano visibile il proprio capo, con il filo svolazzante quasi a rendere palpabile il gesto grafico, il tragitto nell’aria della matita che raccorda i propri tratti.Nelle opere di Sabina lo spessore ridotto dei supporti, la leggerezza e discontinuità dei contorni paiono alludere allo sfibrato permanere del ricordo, all’instabilità del continuo andare cui esso si lega; il segno emerge dalla stoffa con la intermittenza del riporto a spolvero di un cartone creando una sorta di ossimoro artistico, contraddicendo la fissità dell’affresco con la dimensione mobile dell’arazzo.E in questo caso proprio l’accostarsi alla grande dimensione costringe l’artista a rafforzare il segno, ad ispessire il filo della cucitura, esattamente come accade a chi comprende le esigenze espressive di una pittura parietale destinata a comunicare nel contesto esteso di uno spazio pubblico. 

Mentre sotto la loggia dondolano nell’umana risacca i volti scalfiti nella memoria dal rapido sfiorarsi della gente, nell’atrio del Municipio due alte nicchie accolgono con simile leggerezza le composizioni tridimensionali di Ciro Cesaratto: meditazioni sulla forma nel suo definirsi per raccordo e rifrazione, visibile e sonora, che derivano da una ricerca lungamente condotta attraverso i materiali e le tecniche dell’arte orafa, ma già da anni indirizzata secondo un metodo di definizione plastica prettamente scultorea. Così, rinunciando alle suggestioni preziose del metallo – in una presa di distanza che non implica peraltro un senso o bisogno di affrancamento, ma solo la volontà di sperimentare la tenuta in altra scala di determinati rilievi chiaroscurali –, Cesaratto individua dei volumi, forme che sono archetipi naturali, e li sottopone all’indagine della luce, sospesi nell’incavo architettonico a sondare lo spazio con le proprie convessità. 

Sonia Casari mette in scena sul sagrato della Chiesa di San Michele una sacra rappresentazione che nella marcata povertà dei materiali si spinge ai limiti dell’astrazione completa: le forme geometriche, nella staticità del quadrato, chiudono i simboli-attori della recita in spazi che si avvicinano più ai ring in cui sono costrette le lacere larve umane di Bacon che alle pedane sulle quali – davanti alle chiese – si recitavano le scene della Passione nel ‘400; e nell’elemento centrale – leggibile in una complessiva metafora trinitaria quale allusione al Dio fatto uomo – la purezza matematica delle forme diviene groviglio di rovi e rosso di carne straziata, le cui implicazioni lineari quanto spirituali non accettano di essere costrette e di esaurirsi in rigide impalcature di sistema. In una più lieve dimensione di natura si cala invece l’intervento che la Casari propone nel giardino del Centro Civico: sezioni di un tronco – ma sarebbe forse meglio definirle, ludicamente, “fette d’albero” – su cui il ricorrente recinto quadrato diventa margine elastico di uno spazio di gioco, mutevolmente definito nel saltellare fra l’una e l’altra delle capocchie di chiodo che vi sono conficcate di candidi, ceramici cappelli di fungo. Le loro spore giungono forse, nel proprio status vagante, dal parco alla cui presenza alludono le cime d’albero che occhieggiano lì accanto, oltre un alto ed antico muro.

E da ancora più lontano vengono gli spezzoni di ramo, le radici tronche e consumate dal fiume con cui, ai margini del centro urbano, costruisce il suo intervento ambientale Vera Paoletti.
La più manifesta qualità dell’artista mi par essere il sensibile sentimento dei luoghi, in altri casi espresso in rapporto a paesaggi fortemente connotati e in questa circostanza elaborato in modo sottile, a recepire del piccolo borgo in cui l’azione si situa la dimensione di sopita ma ancora echeggiante, diacronica dinamicità.

Ingranaggi irregolari e dal sapore di corteccia creano per accumulo sospeso un meccanismo ad orologeria, rendono visibile il senso di uno scorrere del tempo che a Borgo Fornasir ha vissuto accelerazioni e ristagni di particolare pregnanza: dalla bonifica che trasformò un’area palustre in modello funzionale di insediamento contadino al successivo, lento e diverso ritorno a ovattate cadenze di natura dei ritmi di vita d’una sempre più esigua comunità.

 

Gli anni di origine (1933-1940) e le linee progettuali di pianificazione della località quale sorta di piccola, utopica versione rurale di città ideale segnano un evidente parallelo con la seconda sede espositiva cui da quest’anno si estende la nostra rassegna: quella Torviscosa che proprio alla fine degli anni ’30 sorgeva quale unicum di stampo industriale fra le “città di fondazione” dell’epoca fascista e che nel restaurato edificio del CID (il Centro Informazione Documentazione progettato da Cesare Pea nel 1961 ed oggi sede del dinamico Museo Territoriale Bassa Friulana) ospita gli artisti Adriano Visintin, Annalisa Gaudio, Renzo Possenelli. 

Ad Adriano Visintin si è chiesto di riproporre alcune sue sculture di diversi anni fa, silhouettes realizzate attraverso la deformazione di materiali plastici di recupero. Opere tecnicamente distanti dai modi operativi del lapicida per i quali l’artista ha raggiunto il riconoscimento internazionale, ma che non tradiscono il suo metodo di sintesi formale e che nel contesto industriale di Torviscosa assumono il drammatico rilievo di una constatazione: gli ideali di compiuta integrazione del vivere umano con le esigenze produttive, gli ideali che ai tempi di Marinotti improntarono la creazione di questa città-fabbrica, non sempre trovano modi e spazi per realizzarsi. A risultarne sono allora esistenze lacerate, individui senza spessore, ombre senza domani. E artisticamente le loro figure si materializzano dalle torsioni e collassamenti delle plastiche, emergono nella propria identità di forma dalle dolorose metamorfosi di una sostanza che si raggruma e non si sa dissolvere, condannata a una permanenza senza prospettive.

Come direbbe un poeta, “[…] Varca l’Idea la materia che ha consunta / E rinuncia a questo tempo che non ha salvato”. (2)


A fare da scenario e contraltare a questi simulacri incorruttibili, i pastelli di Annalisa Gaudio, dove, immersi in una luce pulviscolare, degli alberi-bozzolo di estrema purezza plastica stagliano il proprio volume contro una sfumata quinta vegetale e proiettano ombre lunghe e decise su terreni dall’aspetto soffice, carezzati da un tepido sole.

“Penso che mi stenderò qui per un po’, il sole sulla guancia, / il vento come steli d’erba sulla faccia, / e ascolterò quello che dice il mondo, il luminoso mondo transustanziato, / che mi tiene come niente nel suo sguardo”. (3)

Ma quello sguardo che ritorna su di noi non è del tutto limpido. Ad ispirare Annalisa sono state tranquille sedute di posa in un giardino botanico iberico che presumo colmo di quiete, ma dai suoi dipinti promana – ed è quel che conta – una vibrazione di sottile disagio. Le piante che si ergono in controluce si negano ad una completa percezione; protendono spesso le loro propaggini arboree oltre il limite del foglio e paiono assumere a tratti – nel turgore del proprio volume – la consistenza d’“utero molle” di una vegetazione simbolista alla Redon. Non sfigurerebbero, insomma – anche per il completo controllo espressivo su di esse esercitato dall’artista, che ne determina il fascino ambiguo –, quali inquietanti presenze sulle rive del fiume interiore risalito in Cuore di tenebra o fra le erbe contaminate attraverso le quali lo Stalker si fa largo nella “Zona”. Strade, entrambe, verso una presa di coscienza definitiva. 

Luoghi letterari e cinematografici, quelli di Conrad e Tarkovskij, che sondano il torbido dell’animo umano senza rinunciare a una speranza sulle sue sorti; secondo una visuale condivisa da Renzo Possenelli, l’artista triestino cui la rassegna dedica quest’anno – in segno di omaggio alla sua ormai lunga attività, assai raramente testimoniata a livello espositivo – lo spazio più ampio all’interno del CID e le pagine conclusive di questo catalogo.La sua installazione si colloca al fianco di un’altra preesistente: il grande plastico di Torviscosa, immagine di un sogno urbanistico e sociale cui si cercò di dare concretamente vita. Lo sguardo di Renzo, muovendosi nel presente, trova pochi elementi su cui basare la fiduciosa condivisione di utopie sociali; incontra piuttosto segnali di violenza e ipocrisia, e li traduce – con la capacità di lavorare i materiali più disparati che gli è abituale compagna da decenni e con l’insopprimibile freschezza di uno sguardo asciutto, mai disperato – in una sequela concatenata di oggetti che paiono uscirgli di mano come per spontanea germinazione: a partire da grandi punti esclamativi o interrogativi di metallo, adeguati a commentare l’evidenza distorta di quanto viene filtrato dalla comunicazione televisiva, che – si faccia veicolo di uno spot pubblicitario o del dramma di un ostaggio rapito – inibisce il dubbio e tende a ricondurre eventi e pulsioni individuali alla controllabile logica di una comunicazione talmente condivisa da divenire a circuito chiuso. Eppure la sofferenza umana esiste, è tangibile. Al punto che un artista la può esprimere semplicemente sagomando con pochi tocchi dei tubi di gomma in forma di piccoli pupazzi, madri a testa china o prigionieri a braccia alzate. Il sentimento di quella sofferenza non teme l’ironia.E persino quando, fra le tragiche sagome di uomini e donne a grandezza naturale che Possenelli ingloba nella plastica – e la cui macerazione grafica sembra memore delle carni tormentate del Cristo di Grünewald a Colmar –, incrociamo lo sguardo di un uomo barbuto fra le altre corporeità sospese, accanto alle icone di quegli schermi televisivi nei quali ogni pathos reale si uniforma e perde spessore… Persino allora nei suoi occhi pare di leggere la scintilla d’una tragicomica domanda:

“Chi ha messo risate in scatola / nella scena della mia crocifissione?”. (4)

 
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(1) Charles Simic,  Molti zero [1992], in Hotel Insonnia, Milano 2002, p. 99.
(2) Yves Bonnefoy, Infermità del fuoco, in Ieri deserto regnante, Parma 2005 [1958], p. 109.
(3) Charles Wright, Buffalo Yoga [2004], in Breve storia dell’ombra, Milano 2006, p. 187.

(4) Charles Simic,  La voce delle 3 del mattino [1999], in Hotel Insonnia, Milano 2002, p. 137.


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Testo tratto dal catalogo della rassegna